Reinaldo Arenas. Persona non grata
di Fabiana Spani
Maggio 1980, Reinaldo Arenas riesce a scappare da Cuba. La sua amata Cuba. Si imbarca dal porto di Mariel, nascondendosi in quella moltitudine di criminali, mendicanti, squilibrati mentali e omosessuali, di cui Fidel vuole sbarazzarsi, accollandone il peso agli Usa.
Il passaggio è tutt’altro che facile: i pestaggi e gli insulti che accompagnano la partenza degli indesiderati cubani trasformano l’agognato esilio in una dolorosa “via crucis”.
Eccetto per lui. Arenas non ha diritto nemmeno a quello. È un omosessuale dichiarato, avverso al regime, ma soprattutto è ritenuto uno “scrittore pericoloso”. Tre caratteristiche che lo rendono persona non grata al regime castrista, da tenere tuttavia ancora sotto scacco sull’isola.
Decide allora di cambiare il nome sul passaporto in “Arinas” e di tentare per la terza volta l’esodo. Ci riesce, una notte del 1980, ed è finalmente libero. Libero a New York dove 7 anni dopo gli verrà diagnosticato l’AIDS.
La sua esperienza umana e letteraria si conclude nel 1990 nell’unico modo possibile, il suicidio.
Reinaldo Arenas: il bambino che mangiava la terra di Cuba
Io sono quel bambino con la faccia tonda e sporca,
che in ogni angolo ti infastidisce
con il suo “mi dai una monetina”?
Io sono quel bambino con la faccia tonda e sporca, certamente non voluto, che da lontano
contempla gli autobus, in cui gli altri bambini ridono
forte, e fanno salti molto grandi.
Reinaldo Arenas nasce il 16 luglio del 1943 nel villaggio di Aguas Claras, nella provincia orientale. Il legame con Cuba è forte, totalizzante, come ricorda nella sua biografia Prima che sia notte, e si fonde in un magma di puro titanismo fatto di politica, sesso e letteratura. Una miscela esplosiva, gravida di sensualità, sogni e bruschi risvegli che condiziona la sua vita.
Arenas infatti non è solo un intellettuale “comprometido”, è una vittima dell’isola: e in tal senso, la sua storia è la storia di Cuba. Una sovrapposizione febbrile che lo spinge a immolarsi per la libertà sessuale e civile, intese come un a priori di cui ogni essere umano ha diritto. Ed è proprio per questo, per quel suo magma, è censurato, perseguitato, incarcerato, condannato a un umiliante programma di riabilitazione e colpito negli affetti più cari.
Scriverà: “La differenza fra il sistema comunista e quello capitalista, è che se ti danno un calcio in culo, sotto un sistema comunista devi applaudire, sotto il capitalismo puoi gridare: io sono venuto qui a gridare.”
Corsi e ricorsi storici. A 15 anni, Arenas crede nei ribelli che vogliono abbattere il regime di Batista, crede nella rivoluzione comunista, crede nel futuro di Cuba e crede fermamente nell’uomo nuovo, tanto che cerca anche di arruolarsi nelle truppe castriste. Ma ciò che si presenta ai suoi occhi è qualcosa di diverso da quanto auspicato.
Gli anni Sessanta portano nelle strade cubane un’ondata di violenza e di repressione inaudita, che si riversa nei confronti dei dissidenti e degli antisocialisti. E a un tratto qualcosa di sinistro emerge nel cuore pulsante di Cuba: non c’è alcun uomo nuovo, alcun futuro, solo un’asfittica e dura dittatura.
“Uno degli aspetti peggiori della tirannide è che si prende tutto sul serio e si uccide il senso dell’umorismo. Storicamente Cuba era sempre sfuggita alla realtà grazie alla satira e alla burla. Ma con Fidel Castro il senso dell’umorismo era andato via via scomparendo, fino a essere proibito; così il popolo cubano perse una delle poche possibilità che aveva di sopravvivere. Negandogli il riso, gli tolsero il senso profondo delle cose.”
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La Cuba di Arenas: “Vi lascio in eredità tutte le mie paure, ma anche la speranza che presto Cuba sia libera”.
Io sono quel bambino antipatico, certamente non voluto, con la faccia tonda e sporca
che sotto gli enormi lampioni o sotto le puttane
anch’esse illuminate, o davanti alle fanciulle
che sembrano levitare, proietta l’insulto della sua faccia tonda e sporca.
Io sono quel bambino di sempre, arrabbiato e solo,
che ti lancia l’insulto di quell’arrabbiato bambino di sempre e ti avverte: “se ipocritamente mi accarezzi sulla testa, io coglierò l’occasione
per rubarti il portafoglio”.
Reinaldo Arenas inizia così la sua battaglia personale-universale, con un moto dell’animo che utilizza due valvole di sfogo, spesso confuse tra loro e destinate nel tempo a diventare i suoi strumenti di lotta: il sesso e la letteratura.
Lui è un poeta, drammaturgo, scrittore. Scrive moltissimo, anche quando è costretto ad arrampicarsi sugli alberi per scappare, e deve trascrivere velocemente i suoi pensieri “prima che sia notte”. Pubblica molto meno. Il suo romanzo Otra vez el mar – mai tradotto e non reperibile in Italia – lo riscrive quattro volte, perché giudicato pericoloso e controrivoluzionario, quindi a lungo ricercato dalla polizia per essere dato alle fiamme.
La prima volta è distrutto dalla persona a cui Arenas lo affida. Una seconda volta è trovato dalla polizia tra le tegole del suo tetto. La terza riesce ad affidarlo per farlo pubblicare all’estero, ma viene così tanto manomesso da essere irriconoscibile. Lo riscrive nuovamente, per la quarta volta, partendo da quello che è riuscito a raccogliere e dai suoi ricordi.
Lo stesso travagliato percorso del libro sembra coincide con quello delle sue fughe all’estero. Ci prova una prima volta avventurandosi senza successo in un oceano minato dall’esercito, per impedire ai cubani di raggiungere la base statunitense. Poi tenta di raggiungere Guantanamo, tuffandosi in un fiume infestato di caimani. Ma viene sempre catturato e condannato.
Il dolore si amplifica nel carcere del Morro, famosa fortezza coloniale a strapiombo sul mare. Lì, tra migliaia di altri cubani, scopre la vera miseria. Non quella della fame, a cui è già abituato, ma quella morale che trascina con sé nel baratro i sogni di tantissimi giovani. Una sorta di girone dantesco fatto di torture, lavaggi del cervello, abiure forzate e pentimenti indotti, sullo sfondo di un’isola bellissima, contraddittoria e anti-paradisiaca.
Unica alternativa è la morte. Tenta due volte il suicidio, ma non muore. Senza spiegazioni viene mandato nel carcere speciale di Villa Marista dove iniziano per lui i lavori forzati. Scontata la pena, è l’ombra di se stesso, isolato da tutti, colleghi e amici, e impossibilitato a scrivere si aggrappa all’unica possibilità che ha, quella di scappare nuovamente. E ci riesce, anche se solo per caso (lo stratagemma del cognome), quando Castro permette agli “indesiderabili” di andarsene dall’isola.
La storia di Reinaldo Arenas è la storia di un’isola, di una cultura, di migliaia e migliaia di anime in pena sospese tra dittature e un’irrefrenabile voglia di vivere.
Prima di morire, Arenas riesce a concludere a New York, con grande sforzo a causa della malattia, Prima che sia notte. A cuore aperto racconta della sua bellissima isola e tutte le vicissitudini di quel bambino con la faccia tonda e sporca che mangia la terra di Cuba inghiottendone tutti i vermi.
Io sono quel bambino di sempre, davanti al panorama
di terrore imminente, lebbra imminente, pulci imminenti,
di offese e di crimine imminente.
Io sono quel bambino disgustoso che improvvisa un letto con un vecchio scatolone
e aspetta, certo, che verrai con me.
La storia che hai appena letto è una delle 12 che abbiamo raccolto nel nostro nuovo libro: Rebel Stories. Volume I. Puoi scaricarlo qui.
Rebel Vol. 1
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