Fang Lizhi, il professore ribelle
di Simone Cosimelli
L’indipendenza della scienza e l’autodeterminazione individuale, l’autonomia dei corpi sociali e l’affrancamento dall’autoritarismo, il pluralismo e la giustizia. La convinzione sulla convenienza.
Contro la paura che torce le viscere, lega la lingua e soffoca lo spirito critico. Contro il potere, pieno e incontrollato, e il diritto di abusarne.
Per tutto questo il professor Fang Lizhi – dissidente cinese fuggito dalla Cina postmaoista – è vissuto e si è battuto, per tutto questo è stato screditato e perseguitato. Ricercato e maledetto. E per tutto questo sarà ricordato.
Nel volgere di pochi anni, da stimato docente universitario di astrofisica all’Università di Scienza e Tecnologia della Cina, a Hefei, nella provincia orientale dell’Anhui, finì accusato pubblicamente di “crimini controrivoluzionari” dal PCC, il Partito Comunista Cinese (al quale pure era appartenuto).
Rischiando l’arresto, e forse la vita, fu allora costretto a rifugiarsi negli Stati Uniti, in Arizona, con la moglie Li Shuxian, professoressa di fisica all’Università di Pechino. Una scelta lunga più di 20 anni. Fino alla fine, e fino alla morte, nel 2012.
Le sue colpe? Aver spiegato, a partire dalla aule universitarie, che ci sono cause per cui vale la pena spendersi e idee per cui vale la pena compromettersi, se necessario.
Aver insegnato l’inflessibile disciplina della libertà.
Essere stato uno degli ispiratori delle proteste di Piazza Tienanmen a Pechino; quella grande riscossa nazionale, sociale e generazionale che, nel 1989, al tramonto del “secolo breve” e all’alba di un mondo nuovo, fu animata dalla richiesta di diritti e democrazia, e fu poi repressa nel sangue. Sotto i cingoli dei carri armati.
La sfida democratica di Fang Lizhi
Nell’edizione del New York Times del 28 giugno 1987, a pagina 3, campeggiava un titolo che, al tempo, non solo fece rumore e non solo fece discutere, ma inferse anche un duro colpo alla legittimità del PCC.
“China Needs Democracy, Dissident Says”; e quel dissidente, che per la prima volta si rivolgeva a giornali internazionali per superare i confini della Cina, era proprio Fang Lizhi.
Il docente riformista che, nonostante gli ammonimenti e malgrado la clamorosa espulsione dal Partito avvenuta pochi mesi prima, sfidava (ancora una volta) l’autorevolezza della classe dirigente al potere.
Quella classe dirigente controllata dell’uomo forte del momento, Deng Xiaoping: il più scaltro tra gli eredi del dittatore Mao Tze Tung, presidente della Commissione militare centrale (ma leader de facto del PCC) e quindi ambizioso traghettatore della nuova Cina.
Senza una vera democrazia (“without true democracy”) – sosteneva Fang Lizhi – la Cina non avrebbe potuto continuare il processo di modernizzazione avviato dopo decenni di errori, difficoltà e tragedie. La democrazia politica, anzi, era un prerequisito ineludibile per il pieno sviluppo economico e sociale del paese.
La democratizzazione, inoltre, non solo era possibile ma anche storicamente necessaria, proprio perché la democrazia non era un’esclusiva dell’Occidente (”what we call democracy does not belong to the West”).
Tesi del genere, che mettevano in discussione l’ortodossia dominante e proclamavano la superiorità di un principio (la libertà) su uno strumento (il potere), erano uno schiaffo in faccia allo stesso Partito che, invece di ascoltarlo, lo aveva estromesso.
Erano la testimonianza di un’alternativa possibile. L’orizzonte programmatico di una minoranza attiva (composta soprattutto da giovani) che allora, alla fine degli anni Ottanta, cominciava a farsi sentire. A dar fastidio e a manifestare. A superare il perimetro che dall’alto gli era stato concesso.
Fang Lizhi: “The most wanted man in China”
Per Fang Lizhi, che da zelante rivoluzionario si era fatto attento critico, e che aveva iniziato a dubitare del marxismo cinese in virtù del rigore e dello scetticismo che gli venivano dall’essere uno scienziato, i giorni si fecero più duri, la quotidianità più pressante. Il lavoro più complesso.
Eppure fu giusto, dì in poi, non piegarsi, rompere gli equilibri, farsi carico delle responsabilità che altri non volevano o non potevano assumersi. Propiziare il cambiamento, infondere coraggio.
Fu lo stesso Partito, del resto, a designarlo come principale antagonista stampando, in centinaia di migliaia di copie, un libretto i suoi discorsi e i suoi articoli da inviare in tutta la Cina. L’intenzione era quella di screditarlo, facendo circolare e rendendo note idee contrarie a quelle ufficiali; dunque additarlo come un intellettuale sovversivo da mettere fuori gioco.
E invece si ottenne l’effetto contrario. Chi lesse Fang Lizhi, infatti, si persuase delle sue ragioni, ne condivise il pensiero, smise di considerarlo un “nemico del popolo”. Quando quelle 200 pagine vennero ritirate, era già troppo tardi. Fang Lizhi era diventato una speranza per gli oppressi e un pericolo per gli oppressori.
In queste condizioni, mentre a livello globale già si intravedeva il declino inarrestabile dell’Unione Sovietica, arrivare alle grandi dimostrazioni di Tienanmen – in quella piazza piena di attese, al centro di Pechino e a un passo dal cielo – fu inevitabile.
Inevitabile, però, non ne fu l’esito: con la scelta deliberata del PCC, nel giugno del 1989, di non scendere a patti, di affrontare militarmente centinaia di migliaia di manifestanti pacifici (ragazzi, operai, lavoratori), di proclamare la legge marziale, di inviare l’esercito, di non concedere nulla, di dar prova che – se al mercato globalizzato la Cina avrebbe guardato – di certo non avrebbe accettato la democrazia.
A più di 30 anni da quegli eventi non è stato ancora possibile confermare il numero delle vittime (c’è chi parla di centinaia, altri di migliaia). E per di più il PCC vieta qualsiasi tipo di commemorazione, qualsiasi forma di dibattito.
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Fang Lizhi, che delle proteste e del massacro fu solo spettatore, dovette in ogni caso scappare quando furono ordinati arresti in tutta la Cina. Non potendo ammettere di aver sbagliato, di aver generato rancore e risentimento nella popolazione, di aver assistito a una sollevazione spontanea e dirompente, il regime cercò le prove di improbabili complotti stranieri, la presenza di immaginari manovratori e di comodi capri espiatori.
Fang Li Zhi fu il primo della lista: venne accusato di essere la “mano nera” dietro Tienanmen. Il colpevole per eccellenza.
Sicuro che se fosse finito nella mani del PCC non sarebbe stato più rilasciato, accettò l’aiuto degli Stati Uniti, vivendo per oltre un anno, insieme alla moglie, all’interno dell’ambasciata di Pechino. Il diritto internazionale gli assicurò l’inviolabilità.
E mentre fuori venivano orchestrate campagne mediatiche per criminalizzarlo, con le autorità cinesi desiderose di arrestarlo e a un passo dalla rottura diplomatica con gli USA, Fang LiZhi, appartato e attingendo dalla memoria, scrisse il libro della sua vita: “The Most Wanted Man in China: My Journey from Scientist to Enemy of the State”. Un libro pubblicato solo nel 2013, postumo.
Un accademico libero
Nel 1990, un aereo, un C-135 dell’USAF (United States Air Force), lo portò prima nel Regno Unito e poi negli States. E così si concluse la sua vicenda.
Di lì, per Fang Lizhi cominciò una nuova storia, sempre da professore di fisica, ma stavolta a Tucson, in Arizona, e fuori dalla sua terra, la Cina, nella quale non sarebbe mai più tornato.
Anni dopo, insieme ad altri dissidenti coinvolti nei fatti di Tienanmen, chiese di poter rientrare, senza per questo dover ritrattare quanto detto e scritto, e senza per questo temere ritorsioni personali e familiari. La richiesta non fu accettata. La forza prevalse sulla ragione, ancora una volta.
Morì a 76 anni, Fang Lizhi, dopo aver parlato in più occasioni a difesa dei diritti umani e della democrazia, dopo essere tornato all’insegnamento, aver continuato le sue ricerche, aver conosciuto meglio l’Occidente e gli occidentali, e dopo aver condotto, per quanto possibile, una vita fuori dai riflettori.
Rimase sempre un professore, dopotutto. Un accademico. Ma senza rimorsi. E senza pentimenti. Libero.
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