Ernesto Rossi, il dissidente radicale
“Siamo democratici perché siamo pessimisti nei riguardi dei governanti.”
Ernesto Rossi
Con queste parole si potrebbe riassumere la vita di: un uomo intriso di coraggio civile, dissidente senza retorica, antifascista per impeto, studioso per vocazione, oppositore per natura. Un italiano convinto di essere, prima di tutto, europeo.
Perseguitato e imprigionato nell’Italia fascista e troppo in fretta dimenticato dall’Italia repubblicana, Ernesto Rossi ha dato un contributo al paese, e all’Europa intera, essenziale. E la sua vicenda, che è la vicenda di un radicale vissuto in tempi di tragedia e conformismo, mantiene intatto il valore di una vita spesa per la libertà.
Dentro la storia
Ernesto Rossi nacque a Caserta 25 agosto 1897, quarto figlio di un ufficiale dell’esercito di origini piemontesi che, due anni più tardi, fu spedito a Firenze.
Dopo la maturità classica, preso dal vortice della storia da cui l’Europa e l’Italia erano stati investiti, decise di partire volontario per la Grande guerra. Lontano dai furori nazionalisti, combatté più volte, rimase ferito nel 1917 – al ventre e all’occhio – e concluse il conflitto col grado di sottotenente; tornando poi a Siena per iscriversi alla facoltà di giurisprudenza.
In mezzo a una irreversibile crisi politica e una grave crisi economica, da ex combattente subì il fascino del primo fascismo. Ma, finito nel gorgo del ravanchismo nazionalista, a salvarlo fu l’incontro con lo storico e studioso Gaetano Salvemini. Un punto di riferimento.
Convinto che il paese avesse bisogno di un rinnovamento profondo, e che tuttavia l’onda antidemocratica stesse inesorabilmente montando, nel corso degli anni Venti Rossi divenne un argine a difesa della libertà. Dopo la Marcia su Roma del 1922, il delitto Matteotti del 1924 e la sterzata dittatoriale di Mussolini nel 1925, fu tra i primi antifascisti italiani.
Pronti a scontrarsi con un potere che pretendeva di monopolizzare il patriottismo e costruire il totalitarismo italiano.
Proprio mentre venivano emanate le prime leggi fascistissime per piegare lo stato liberale, Rossi – insieme a Salvemini, i fratelli Carlo e Nello Rosselli e altri oppositori del regime, come Nello Traquandi – fondò, a Firenze, il primo giornale clandestino antifascista: Non Mollare. Una pubblicazione che, pur stampata in poche copie, divenne ben presto una spina nel fianco per Mussolini perché elencava puntigliosamente crimini, malversazioni, abusi del governo e dei membri del PNF (Partito Nazionale Fascista).
Non Mollare resse pochi mesi. Un’incursione della polizia ne arrestò alcuni membri, ne distrusse la sede e ne rese impossibile la pubblicazione. Molti antifascisti furono processati, alcuni condannati, altri costretti all’esilio.
Quell’esperienza, marginale e preziosa, diede però la percezione di una riscossa possibile. Nascosti nell’ombra, emarginati e silenziati, oltraggiati e perseguitati, gli antifascisti degli anni Venti dimostrarono che non tutti, in Italia, erano pronti a inginocchiarsi al dittatore.
Fuggito dall’Italia verso la Francia, poi rientrato in Italia a seguito di un’amnistia, ma ormai schedato e riconosciuto, Rossi ebbe molti problemi personali e professionali per reinserirsi nel contesto sociale e culturale dell’epoca. Contemporaneamente, però, si apprestò a compiere il passo che lo avrebbe reso uno dei nemici più irriducibili del regime fascista. Fu infatti tra i promotori, gli organizzatori e gli animatori di movimento clandestino antifascista destinato a incidere nella storia del paese e a rappresentare una fiamma di speranza inestinguibile: Giustizia e Libertà (GL).
Un gruppo di socialisti e liberaldemocratici che, intraprendendo una lotta accanita e disperata, dell’antifascismo fece un progetto politico e un orizzonte per il futuro.
Per Rossi fu una scelta senza ritorno. Sentita, coraggiosa e mai rinnegata.
Carcere, Confino, Resistenza
Dopo una frenetica attività di raccolta informazioni e organizzazione di iniziative mirate a scuotere gli italiani e compromettere il potere di Mussolini, a causa di una delazione improvvisa, Rossi e altri antifascisti di GL furono scoperti, individuati e arrestati nel 1930.
Rinchiuso in una cella di Regina Coeli, a Roma, sottoposto a un controllo rigidissimo, fu indicato come uno dei capi di una “organizzazione segreta” intenta a preparare un’insurrezione armata e condannato dal Tribunale speciale – il braccio giudiziario del regime – nel 1931. Gli venne comminata una pena di vent’anni di carcere.
Quelli del carcere (anzi delle carceri, visto che fu più volte trasferito) furono anni duri: spesso passati in rigorosa solitudine. Tenuto sempre sotto stretta sorveglianza visto i ripetuti tentativi di fuga, Ernesto Rossi ebbe la possibilità di studiare, riflettere sull’avvenire degli stati democratici, sul significato dei diritti civili, sul funzionamento dell’economia.
Inoltre, riuscì a sposarsi con rito civile, in un ufficio amministrativo vicino alle celle dove era detenuto, con la donna della sua vita, la studiosa Ada Rossi; diventata più tardi un pilastro della Resistenza femminile.
In linea con un’interpretazione giù suggerita da Piero Gobetti – il quale fu bastonato a più riprese dagli squadristi prima di morire nel 1926 –, Rossi arrivò a considerare il Fascismo non “un accidente da attribuire alla criminale iniziativa di Mussolini” ma il “frutto di tutta la nostra storia”. Il frutto avvelenato di una tradizione, quella italiana, distante dalla libertà e dalle lotte democratiche.
Nel frattempo, senza energie e senza risorse, Giustizia e Libertà continuò l’attività antifascista, soprattutto all’estero, in nome e per conto dei dissidenti reclusi per aver affermato la supremazia di un principio – la libertà – sulle velleità militariste, razziste e imperialiste del fascismo. Dopo l’assassinio di Nello e Carlo Rosselli per mano di terroristi d’estrema destra in Francia, in collaborazione con il servizio segreto fascista italiano, Rossi intensificò i preparativi per un’improbabile fuga.
Tuttavia, dopo 9 anni di carcere, nel 1939, ormai qualificato come “elemento socialmente pericoloso”, venne spogliato di ogni possesso, bene o proprietà e confinato a Ventotene.
Li, fuori dal mondo, incontrò e conobbe Altiero Spinelli, con il quale, anche grazie all’aiuto di Ursula Hirschmann e Eugenio Colorni, scrisse su piccoli fogli di carta un testo intriso di significato: Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un Manifesto. Un documento risalente del 1941 che, rinnegando il nazionalismo, gettò le basi culturali, politiche e ideali per l’Europa del futuro.
Arrestato di nuovo nel 1943 e tradotto a Roma, ancora rinchiuso in una cella angusta, fu liberato dopo il 25 luglio del 1943 a seguito della caduta di Mussolini, partecipò alla fondazione del Movimento federalista europeo (MFE) e, poco più tardi, a Firenze, alla nascita dell’organizzazione politica che avrebbe preso il testimone di Giustizia e LIbertà: il Partito d’Azione (Pd’A).
Il partito che, portando sul campo di battaglia migliaia di partigiani armati, diede un contributo significativo alla Liberazione dai nazifascisti e al riscatto del paese agli occhi del mondo.
In quegli anni Ernesto Rossi fu tra i più attivi pensatori impegnati nel progettare la ricostruzione di un’Europa devastata dalla guerra. E quando uno dei leader della Resistenza armata, l’azionista Ferruccio Parri, fu nominato presidente del Consiglio – il primo presidente del Consiglio dell’Italia liberata – Rossi ne divenne un valido consigliere.
Un periodo, quello, breve e intenso: che sembrò riconoscere i meriti degli italiani e delle italiane che si erano ribellati senza temere per le inevitabili conseguenze delle loro scelte.
Una voce contro nell’Italia della Repubblica
L’Italia del dopoguerra non corrispose, per molti versi, all’Italia che gli antifascisti di GL e del Pd’A avevano auspicato.
Lo storico passaggio dalla dittatura alla democrazia e dalla monarchia alla Repubblica non aveva risolto tutte le contraddizioni, gli squilibri e le divisioni di un paese profondamente diviso.
Schiacciata dalla guerra fredda, dall’influenza capillare della Chiesa e da un ottuso conservatorismo l’Italia, tra la fine degli quaranta e i primi anni sessanta, era un paese in bilico tra passato e presente, tra regresso e progresso.
E proprio in quell’Italia Ernesto Rossi rappresentò una voce contro.
In polemica con i liberali di vecchio stampo, fu tra i fondatori del Partito Radicale, nel 1955; divenne un contestatore a 360° degli equilibri (e degli squilibri) venutisi a creare dopo il consolidamento della Democrazia Cristiana (DC); fu tra le firme di punta de Il Mondo di Mario Pannunzio e fu, senza timore di apparire blasfemo, un anticlericale convinto in un paese intriso di clericalismo.
Tra la fine degli Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta, Rossi invocò con insistenza la necessità di modernizzare la pubblica amministrazione, eliminare privilegi e rendite di posizioni, ridurre il deficit di bilancio, regolare il funzionamento del mercato interno e ridefinire i rapporti tra parti sociali differenti e spesso in contrasto.
Sul periodico che aveva fondato nel 1963 insieme a Ferruccio Parri, l’Astrolabio, Rossi denunciò, come ha osservato lo storico Luca Polese Remaggi, “la deriva trasformistica della politica italiana, puntando l’indice contro l’intreccio tra partiti, gruppi di pressione e funzionari pubblici, tutti impegnati nello sperpero del denaro pubblico”.
Rossi desiderava riformare il capitalismo italiano; ancora retrivo e regressivo, per migliorare una società allora gravata da ampi e stridenti squilibri, storture e diseguaglianze. E mostrò, una volta in più, di agire orientandosi con l’unica bussola che l’esperienza – specie durante gli anni del fascismo – gli aveva fornito: la libertà.
L’eredità di Ernesto Rossi
Alla sua morte, il 9 febbraio del 1967, in tanti lo compiansero.
L’Astrolabio dedicò un intero numero alla sua storia, alle vicende che lo videro protagonista, agli ideali che portò avanti e alle battaglie che aveva combattuto.
Mario Signorino, un giovane collaboratore che di lì a poco tempo sarebbe diventato vice-direttore, scrisse parole incisive per ricordarlo:
“La lotta antifascista di Ernesto Rossi, dal Non mollare ai lunghi anni di carcere e di confino, non fu soltanto urna grande esperienza morale chiusa in se stessa, uno degli esempi più nobili della Resistenza democratica. Fu anche la premessa e la preparazione di un’esperienza politica non meno importante: quella del Rossi che abbiamo conosciuto negli ultimi venti anni, l’intellettuale moralista che con il suo illuminismo e la sua intransigenza è stato tra i maggiori creatori dei fatti politici di questo periodo”.
Paolo Sylos Labini, invece, scrisse del Rossi economista: lo studioso attento che aveva avuto intenzione brillanti e che, soprattutto, aveva trovato il coraggio di mettersi in discussione e di perfezionare sui libri una cultura sterminata, utilizzata a piene mani nella battaglie delle idee come prova di un coraggio che in pochi, nella penisola, potevano vantare.
“La scomparsa di Ernesto Rossi crea un vuoto irrimediabile nel nostro paese, dove […] non è raro l’ingegno, ma è assai raro il carattere. Restano con noi, a lenire la nostra atroce solitudine, il suo insegnamento ed il suo esempio: l’esempio di un uomo eccezionale, che ha saputo essere rigorosamente coerente al suo ideale dal principio alla fine, e non solo nelle grandi ma anche nelle piccole, complici e più umili azioni della sua vita”.
Ferruccio Parri, infine, in un pezzo accorato ma senza punte di retorica, in cui rievocava gli anni dell’opposizione al fascismo e dell’impegno civile, annotò:
“Non è da noi, quando, giorno per giorno, ci lascia uno dei compagni della lunga schiera portatrice degli ideali che vengono da lontano e devono andar lontano per la salute del nostro popolo, non è da noi scioglierci in pianti e compianti. Non affidiamo la memoria di Ernesto Rossi a un epitaffio. È caduto un capo ed un maestro. Abbiamo un sol modo di rendergli onore: quello di seguitare l’opera.”
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Rebel Vol. 2
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