March Bloch, lo storico che disse no
“Papà, spiegami allora a che serve la storia”.
È la domanda indiretta che, un giorno come tanti, negli anni in cui l’Europa rischiò seriamente di finire schiacciata sotto il tallone della Germania hitleriana, un ragazzo rivolse al padre.
E che il padre, il francese Marc Bloch, uno degli studiosi più importanti del XX secolo, utilizzò come incipit di un libro incompiuto eppure fondamentale: Apologia della storia o Il mestiere dello storico (in francese: Apologie pour l’histoire).
Uomo curioso, accademico brillante e valoroso militare, Bloch non ebbe l’opportunità di terminarlo, quel libro, perché la sua vita – già compromessa per il torto di essere ebreo al tempo della persecuzione istituzionalista – fu brutalmente stroncata il 16 giugno 1944 a Saint-Didier-de-Formans, nella Francia orientale, per mano della Gestapo, la polizia segreta del Terzo Reich.
Dopo essere stato torturato, Bloch venne ucciso a colpi di mitra a causa di quello che aveva deciso di essere: un partigiano.
Un combattente per la libertà. Un ribelle.
E per questo, soprattutto per questo, quella di Marc Bloch è la storia di uno storico che merita di essere raccontata.
Marc Bloch, tra passato e presente
Nato in una famiglia di origine ebraica nel 1886, a Lione, e a sua volta figlio di uno storico dell’antichità, Gustave Bloch, Marc Bloch visse in una Franca – la Francia della terza Repubblica – attraversata da forti divisioni, invisibili tensioni e insanabili contrasti.
Essere ebrei, o essere etichettati come ebrei anche laddove non si praticasse il culto ebraico (com’era il caso di Bloch), significava esporsi a una stigma irrazionale più forte della verità.
In un paese lacerato dal cosiddetto affare Dreyfuss – rivelatore di impulsi della società civile francese – e per di più sobillato dalla destra nazionalista, essere ebrei poteva significare, in sostanza, convivere con un pregiudizio inscanfibile.
Eppure Marc Bloch, di tutto questo, cercò di non lamentarsi mai, deciso a dimostrare il suo valore e a condurre la vita che aveva sempre sognato; tra le carte d’archivio, documenti da analizzare e montagne di libri da leggere.
In gioventù fu un ottimo studente, riuscendo anche ad entrare all’École Normale Supérie alla Sorbona. Richiamato poi dalla leva militare a vestire i panni del soldato, visse per intero la Prima guerra mondiale.
La Grande Guerra: uno degli eventi più segnanti del Novecento che, per il numero impressionante di vittime (tra militari e civili, oltre 15 milioni), destò un enorme impressione nei contemporanei e determinò una ridefinizione complessiva degli equilibri internazionali.
Fu una carneficina che nessuno, in Europa, osò dimenticare.
E che segnò profondamente Marc Bloch, il quale, peraltro, terminò il conflitto col grado di capitano nei servizi d’informazione, ricevette la decorazione con la Legion d’onore per meriti militari, ed ottenne un grande riconoscimento: la Croce di guerra.
Dopo la guerra sposò Simonne Vidal – dalla quale ebbe sei figli – poi avviò la carriera accademica. Nel 1927 ottenne la cattedra di Storia Medievale all’Università di Strasburgo. E lì cominciò la sua avventura nel passato.
Bloch indagò con successo la storia sociale e culturale del Medioevo, concentrandosi sulla mentalità degli uomini, sul consenso al potere, sulla differenza tra fatti e interpretazioni e sui meccanismi che innescano, accelerano, rallentano o bloccano i processi storici.
Il suo contributo fu essenziale per archiviare le vecchie metodologie, per rinnovare il racconto storico e gli strumenti d’indagine della professione.
A una storia tutta incentrata sulle grandi battaglie militari e sulle manovre politiche – la storia per singoli avvenimenti, événementielle – Marc Bloch contrappose l’attenzione per gli aspetti sociali, culturali ed economici.
Fu uno dei primi – e forse il migliore – a cambiare concretamente la disciplina.
Insegnò che la storia non consiste soltanto nella cronaca delle gesta di grandi eroi o di importanti personaggi, ma nella ricostruzione, minuziosa e certosina, dei processi di lungo periodo. Tutto ciò iniziò anche grazie alla fondazione nel 1929, insieme al collega e amico Lucien Febvre, della rivista Annales (Annales d’histoire économique et sociale).
A lasciare un ritratto di Marc Bloch prezioso perché intimo, fu proprio Febvre, il quale lo definì un “compagno di cammino”.
Le Febvre scrisse che in Bloch aveva sempre prevalso l’interesse per la mentalità, la cultura e le passioni dell’uomo; che la libertà – nel senso più ampio possibile – era sempre stata un orizzonte imprescindibile del suo lavoro e che, proprio per questo, non era possibile scindere in lui “l’attività del cittadino da quella dello studioso”.
Osservò Febvre:
Marc Bloch non fu un grande storico per aver letto molti libri, collezionato molti documenti, compilato molte schedine. Ancor meno per aver legato il suo pensiero e la sua prassi di storico a una filosofia […] Bloch fu un grande storico perché recò sempre nel suo lavoro il senso e la sollecitudine della vita: di quella vita di cui ogni vero storico non si stanca di “conoscere il gusto”.
Marc Bloch, dopo molti tentativi falliti, riuscì ad entrare alla Sorbona con una cattedra in Storia economica, coronando il sogno di tornare da professore laddove aveva studiato da ragazzo. Poi, però, venne la guerra, venne la catastrofe.
L’ombra dei fascismi – e del nazismo in particolare – a minacciare la Francia, l’Europa, il mondo.
Uno storico di fronte alla storia
Proprio allora, come ricordò le Febvre, a 53 anni, padre di sei figli e in parte malato, ma anche all’apice della carriera professionale, Marc Bloch “si affrettò a rivestire nel 1939 la sua vecchia divisa di capitano di fanteria” ed entrò nell’esercito quando invece avrebbe potuto “restarsene tranquillamente seduto nella sua cattedra della Sorbona”.
Visse la disfatta nazionale, fu tra gli sfollati di Dunkerque nel 1940, assistette al crollo di ogni certezza e all’avanzare della paura.
Dopo l’aggressione alla Polonia da parte delle truppe della Wehrmacht (le forze armate della Germania), nel settembre del 1939, iniziò a delinearsi con maggiore nettezza il disegno egemonico del Terzo Reich di Adolf Hitler.
Venne quindi avviata una progressiva ristrutturazione politica, burocratica e amministrativa delle zone occupate dai nazisti e, contemporaneamente, iniziarono le deportazioni di intere popolazioni europee – soprattutto dell’est – finalizzate all’eliminazione su larga scala delle “razze inferiori”.
Si trattò a tutti gli effetti di un progetto politico che prevedeva la riorganizzazione su base razziale del continente e aveva come suo cardine l’emarginazione, l’espulsione, la sottomissione o l’eliminazione diretta dei cosiddetti “subumani” (in tedesco: Untermenschen).
Ad essere colpiti furono prima di tutto gli ebrei – vittime di una decennale discriminazione – ma anche omosessuali, rom, zingari, malati e più in generale quelle categorie di individui che l’ideologia nazionalsocialista considerava culturalmente, socialmente e biologicamente inferiori.
Obiettivo: la nascita di quello che Hitler chiamò il Nuovo Ordine Europeo (in tedesco Neuordnung), un sistema internazionale guidato dalla “Grande Germania”.
Un storico italiano, Enzo Collotti, ha scritto che quello nazista fu un tentativo di ricostruire su basi nuove l’Europa, puntando così a una “integrazione fondata sulla supremazia di una potenza e di una razza rispetto ad una costellazione di stati e di popolazioni collocati in posizione d’importanza decrescente, dalla condizione di satelliti a quella di candidato alla pura e semplice scomparsa fisica”.
Vessati in Germania con le leggi di Norimberga già 1935, gli ebrei del Reich furono quindi destinatari di provvedimenti che li condannavano alla segregazione civile e alle persecuzione istituzionalizzata, fino alla più tragica delle iniziative che la storia contemporanea ricordi: la soluzione finale, il genocidio organizzato.
E quando la guerra scoppiò, la Francia fu invasa dalla Germania (capitolando con impressionante velocità) e al governo legittimo si sostituì, nel nord, un governo in mano ai tedeschi, anche Marc Bloch, di colpo, si trovò di fronte al baratro.
In un libro scritto nel 1940 – ma pubblicato nel 1946 – in cui analizzava cause e conseguenze dell’invasione tedesca in Francia, La strana disfatta (in francese L’étrange défaite), Marc Bloch mostrò di aver compreso quanto l’inarrestabile avanzata nazista avesse risvegliato, anche nel suo paese, il demone dell’antisemitismo.
Nel volume risuonò forte la condanna ai vertici dell’esercito per non aver saputo organizzare la difesa della Francia e chiara la critica alla grande borghesia francese che, per debolezza e opportunismo, e per paura di una presunta minaccia comunista, si stava mostrando più che disposta ad accettare compromessi con Hitler.
Bloch, inoltre, rivendicò con orgoglio la sua identità ebraica.
Lo fece, come sempre, senza rinunciare all’approccio dello studioso e senza accantonare una delle sue maggiori qualità: il coraggio.
In un passaggio significativo, osservò:
Sono ebreo. Se non di religione – che non pratico affatto, come nessun’altra religione, del resto -, almeno di nascita. Non ne traggo motivo né di orgoglio né di vergogna, essendo – almeno lo spero – uno storico abbastanza serio da non ignorare che le predisposizioni razziali sono un mito e che la stessa nozione di razza pura è un’assurdità particolarmente flagrante quando, come in questo caso, si pretende di applicarla a ciò che in realtà fu un gruppo di credenti reclutati a suo tempo in tutto il mondo mediterraneo, turco-cazaro e slavo. Non rivendico mai la mia origine salvo che in un caso: quando mi trovo di fronte a un antisemita.
Faccia a faccia con la morte
Cacciato dalla Sorbona dopo l’estensione delle leggi razziali nel suo paese, fu inizialmente marginalizzato e spedito prima a Clermont poi a Montpellier.
Proprio in quel frangente iniziò la stesura di Apologia della storia o Il mestiere dello storico – resa ancora più difficile dato che gli era stato vietato l’accesso alla sua fornitissima biblioteca.
Dopo l’occupazione delle Francia meridionale – che sancì la scomparsa della sovranità nazionale, di fatto e di diritto – Marc Bloch prese la decisione più dura della sua vita: anziché nascondersi, e anziché espatriare, si congedò dalla famiglia e, per opporsi al nemico, tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, si unì alla Resistenza francese in clandestinità.
Nome in codice: Narbonne e poi, in seguito, Blanchard.
Fu una scelta coraggiosa e, allo stesso tempo, una scelta obbligata.
Una scelta che lo portò a combattere per l’ultima volta con l’obiettivo di difendere quello in cui aveva sempre creduto: la libertà.
Bloch, così, posò la penna e imbracciò il fucile. E per la sua preparazione teorica, la sua esperienza sul campo e il suo acume militare, diventò, nella zona di Lione, uno dei leader del movimento partigiano.
Quell’eroica minoranza attiva che – in un paese piegato dalla paura – ebbe un ruolo non irrilevante nell’agevolare la controffensiva anglo-americana (che si sarebbe concretizzata nel giugno del 1944 con lo sbarco in Normandia) e nel sostenere le forze del generale Charles De Gaulle pronte al riarmo al di là della manica.
Le Febvre, che riuscì a rimanere in contatto con lui, scrisse che Bloch, consapevole della probabilità di morire “di una morte orribile”, non volle abbandonare la Francia e che, partecipando in prima persona alla Resistenza, riuscì invece a guardare in faccia la morte, a squadrarla, a prenderne le misure.
Convinto di stare dalla parte giusta nel momento più difficile.
Non finì mai di scrivere il suo libro. Nel marzo del ’44 Marc Bloch – a pochi mesi dalla Liberazione, a un passo dalla fine della guerra – venne infine catturato dalla Gestapo.
Subì feroci, metodiche e ripetute torture e il 16 giugno, mentre infuriava la battaglia sulle spiagge della Normandia, fu fucilato a Saint-Didier-de-Formans, insieme ad altri 29 compagni. Bagnando del suo sangue il paese che amava.
Di Marc Bloch rimase un ricordo vivo, palpitante, fulgido. L’eredità di un uomo che credeva nella necessità della storia per spezzare le catene del dubbio, comprendere la realtà e fornire gli strumenti essenziali per l’orientamento.
Una bussola di navigazione in un tempo dominato dall’incertezza.
“L’incomprensione del presente – scrisse nell’introduzione di Apologia della storia – nasce fatalmente dall’ignoranza del passato. Forse però non è meno vano affaticarsi a comprendere il passato, ove nulla si sappia del presente.”
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Rebel Vol. 2
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